Sono state rese note le 374 pagine di motivazioni della sentenza che ha condannato Matteo Cagnoni all’ergastolo per l’omicidio della moglie Giuila Ballestri, avvenuto a Ravenna due anni fa. “Aveva deciso di uccidere sua moglie e stabilì che doveva soffrire, che doveva scontare perdendo la propria identità. Quel volto che tutti ricordavano di aver visto insieme a lui e che, avendo disonorato lui, nessun altro doveva più guardare”. Con queste parole i giudici raccontano uno dei delitti più spietati degli ultimi decenni.
“La scelta di Matteo Cagnoni è stata una delle più atroci concepibili” scrivono. Cagnoni, infatti, pur possedendo “legittimamente” una pistola, e pure avendo, come medico, accesso a sostanze in grado di procurare la morte, ha scelto per uccidere sua moglie, un tronco di legno. Un bastone, preso dalla legna che aveva tagliato insieme ai propri figli qualche giorno prima. Un’arma “con il quale poter dar sfogo a quanto di più atrocemente represso aveva dentro di sé”. Con quel tronco, infatti, Cagnoni ha sfondato il cranio di Giulia, ne ha deturpato il volto, cancellato i lineamenti, procurato la morte.
La ricostruzione
La mattina del 16 settembre 2016, giorno dell’omicidio, il sistema di sicurezza della Guardia di Finanza ritrae Giulia Ballestri e Matteo Cagnoni che arrivano alla villa di via Padre Genocchi a bordo di una Mercedes. Sono circa le 9 e un quarto. Sempre le immagini del sistema di video sorveglianza mostrano il dermatologo che esce dalla villa circa due ore dopo da solo. Cagnoni dopo essere ripartito a bordo della sua auto raggiunge la fine della strada e fa un’inversione di marcia sostando per un minuto sul lato sinistro, davanti alla vecchia casa abbandonata. Cosa avviene in quel minuto di sosta non è possibile saperlo: il sistema di videosorveglianza non riproduce nessuna immagine. Di certo, da quella posizione, non poteva vedere nessuno allontanarsi nei giardini pubblici vicini alla villa.
“Certamente non Giulia che non uscì mai da quel cancello e a quell’ora giaceva, agonizzante e ormai priva di vita, sul pavimento dello scantinato della casa“. L’imputato nel corso dell’interrogatorio in aula aveva invece sostenuto di avere indugiato a guardare la moglie che si stava allontanando verso i giardini nello specchietto retrovisore. Dopo l’omicidio, l’assassino ha provveduto a una lunga, anche se parziale, attività di pulitura dei locali. L’unico che poteva nutrire questa esigenza era Matteo Cagnoni, “in quanto la disponibilità della villa (escludendo la inoffensiva Ricci Adriana) era esclusivamente a lui riconducibile”. Le due telefonate effettuate il giorno dopo l’omicidio dalla residenza di famiglia di Cagnoni in via Giordano Bruno, “dimostrano che Matteo (unico a potervi accedere e privo di telefono cellulare, rimasto a Firenze) era a Ravenna anche sabato 17 settembre fra la tarda mattinata e la metà del pomeriggio”.
Un rapporto di totale subordinazione
I giudici, nelle motivazioni, ricostruiscono anche il rapporto fra i due coniugi. Un rapporto di totale subordinazione della moglie verso il marito. Cagnoni, che si rifiutava di riconoscere la fine del matrimonio ostinandosi a far curare Giulia per una presunta depressione, le versava delle medicine dentro alle bottiglie aperte in casa, le somministrava farmaci antidepressivi per il bipolarismo come il Depakin – e altri ipnotici – lo Stilnox – arrivando addirittura a controllare che le ingerisse”. A far innalzare ancora di più il controllo nei confronti della moglie, arrivò, poi, nel 2015 la storia di Giulia con Stefano Bezzi. Matteo si rivolge a investigatori professionisti e chiede espressamente alla donna di non vedere l’amante fino alla separazione.